I due umanesimi

Pubblicato su Tempi, aprile (?) 1998

È convinzione purtroppo inossidabilmente diffusa che l'Umanesimo sia sinonimo di liberazione dalla cappa di opprimente giogo teocentrico che avrebbe dominato il medioevo. Si dà in altre parole per ovvio che umanesimo sia sinonimo di antropocentrismo, mentre, specularmente, teocentrismo sarebbe sinonimo di ottenebrante oppressione. La maggior parte degli studenti delle scuole superiori (e delle università) deve a tutt'oggi sorbirsi come oro colato questa tesi, che a un occhio minimamente critico appare datata e faziosa[1].

Nel nostro secolo sono stati compiuti in effetti autorevoli e documentati studi che hanno evidenziato la falsità della predetta tesi, in più di un senso. Anzitutto è falso di diritto che umanesimo sia equivalente ad antropocentrismo: è merito ad esempio di un Maritain aver snidato l'equivoco di tale identificazione. In Umanesimo integrale il filosofo francese sostiene che vero umanesimo è quello teocentrico, mentre il cosiddetto umanesimo antropocentrico finisce con l'essere ostile all'umano, come hanno mostrato le tragedie della storia del nostro secolo, promosse da regimi che pretendevano una capacità autodivinizzante dell'uomo. Chi ha preteso che l'uomo fosse Dio infatti ha portato a devastazioni senza precedenti: si pensi alle due guerre mondiali, ai lager e ai gulag; in nome di una umanità che si pretende divina si è massacrato l'uomo concreto. La battaglia che Maritain ha sostenuto sul piano filosofico è stata poi combattuta da altri su un piano più storico-specifico: autori come Louis Bouyer, de Lubac, von Balthasar, Chantraîne, hanno preso in esame il fenomeno storico che va sotto il nome di umanesimo ed hanno mostrato come in realtà non siano stati rari casi di umanisti la cui impostazione restava saldamente teocentrica e pienamente compatibile con la tradizione cattolica.

Lo scenario che si delinea così per l'alba dei tempi moderni non è quello di una cultura umanistica compattamente antropocentrica e ostile al medioevo (lo aveva del resto già visto il Burdach) ma è piuttosto quello di una variegata articolazione di posizioni in qualche modo riconducibili a due filoni, quello antropocentrico e quello teocentrico.

È superfluo insistere sul filone antropocentrico: un Lorenzo Valla, un Coluccio Salutati, un Poggio Bracciolini, un Piero Pomponazzi, un Montaigne hanno sostenuto delle tesi che introducono delle significative novità rispetto al teocentrismo medioevale, e in modi e gradi diversi hanno iniziato a delineare una visione della realtà che tende ad emarginare il riferimento a Cristo. Ma questo viene già abbondantemente sottolineato dalla corrente vulgata scolastica. Più interessante è invece vedere l'altro, misconosciuto filone.

Un pensatore come Pico della Mirandola ad esempio può essere letto in una prospettiva teocentrica piuttosto che antropocentrica. È merito di de Lubac (nella sua Alba incompiuta del rinascimento, tr. it. Jaca Book) aver mostrato come il preteso antropocentrismo di Pico si riveli, ad un più attento esame, come una entusiastica percezione della dignità dell'uomo, che nulla ha di incompatibile con il teocentrismo tradizionale. Possiamo concentrare la nostra attenzione su questo autore, che è un caso esemplare del discorso che stiamo facendo. In Pico l'uomo non è creatore dei valori, ma la sua libertà è chiamata a scegliere tra alternative date, ossia fondamentalmente tra il bene e il male. È noto il passo della Oratio de hominis dignitate, in cui egli pone in bocca al Creatore le seguenti espressioni, rivolte ad Adamo appena creato:

"Tu potrai degenerare in forme inferiori animali (in inferiora quae sunt bruta degenerare), oppure, secondo la decisione del tuo animo, essere rigenerato verso ciò che è superiore e divino (in superiora quae sunt divina regenerari)".

Questo passo viene correntemente letto come se l'intenzione di Pico fosse quella di attribuire ad Adamo un potere assoluto, creativo del bene e del male. Ma la scelta proposta ad Adamo è tra realtà inferiori, bestializzanti, e la realtà superiore, divina; ora tra i due piani esiste, come evidenzia lo stesso lessico, una ben precisa differenza di valore: la prima alternativa è positiva, tant'è che è un salire verso l'alto, la seconda è negativa, è un cadere verso ciò che sta in basso. In secondo luogo mentre per lo scendere verso il basso il verbo usato è attivo (degenerare), quello impiegato per l'assimilazione verso il divino è passivo (regenerari= essere rigenerato, e non come traducono molti "rigenerarti"): si introduce, insomma un'idea di intervento, che non può essere che un intervento di Dio, non contraddetto da quel "secondo la decisione del tuo animo", dato che per il cattolicesimo grazia e libertà non si escludono[2]. Dunque Pico riconosce la dipendenza dell'uomo dal suo Creatore, e sa che la libertà creata, per quanto nobile e preziosa (come già sostenevano i medioevali, sia pur con diversi accenti), non è assoluta ma si iscrive dentro l'oggettività di un Disegno, a cui è chiamata ad aderire per compiersi. Analogamente il presunto irenismo di Pico, la sua tendenza cioè alla conciliazione, a trovare un punto di intesa con altre religioni, può essere letta non come un sincretismo che neghi il carattere assoluto della verità (pienamente presente solo nel cattolicesimo), ma come uno sforzo volto alla finalità pratica e concreta di avvicinare gli uomini tra loro. Ma netto è il suo giudizio sulla unicità del vero:

"Solo Cristo è colui attraverso il quale la carne può avere accesso al Verbo, e come ha scritto Giovanni non c'è altro nome sotto il cielo nel quale gli uomini debbano essere salvati.

Ecco ciò a cui dovrebbero pensare diligentemente coloro che, mentre dicono di credere a Cristo, credono tuttavia che una religione comune, o quella nella quale si nasce, basti a procurare la felicità.

Credano, non a me (…) ma a Cristo stesso, che ha detto: Io sono la via, la Io sono la porta, chi non entra attraverso di me è un ladro"(Heptaplus, exp.6, c.7, 324).

Quello che abbiamo accennato di Pico si potrebbe dire, nella sostanza, di un Marsilio Ficino, o di un Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro, tutti autori che la storiografia corrente nelle scuole tende a dipingere, interessatamente, come precursori di una certa modernità, anticristiana, dimenticando che non esiste una sola modernità, come non esiste un solo umanesimo.

[1] Al massimo ci si sofferma sulla questione della continuità/discontinuità tra medioevo e umanesimo/rinascimento (ricordando Burckhardt e Burdach), ma difficilmente si evidenzia con onestà la posta in gioco reale di tale dibattito e i suoi sviluppi successivi.

[2] Bisogna anche dire che il tono di ottimistico entusiasmo per la libertà, va ricondotto anzitutto all'irruenza giovanile (scrisse l'Oratio a ventitré anni), e va comunque compreso in senso non pelagiano; si riferisce infatti ad Adamo prima del peccato originale, alla natura umana cioè nel suo stato di integrità antecedente il peccato originale.